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Autolesionismo, una parola che fa molta paura perché si associa ad uno stato di forte malessere, psicologico ed emotivo. Si tratta di una pratica più comune in adolescenza rispetto ad altre fasce d’età, ma ciò non esclude che anche qualche adulto, o bambino, scelga di ricorrere al dolore fisico per ridurre il disagio interiore. Si, perché l’autolesionismo è una strategia messa in atto proprio per questo: fronteggiare il distress provocato da stati emotivi spiacevoli, in modo da rendere il malessere “più sopportabile”.
Forte è il legame tra autolesionismo e tendenza suicidaria, poiché entrambi sono modalità – sebbene disfunzionali – a cui le persone ricorrono per per cercare di stare meglio. Tuttavia, non tutti i tentativi di suicidio sono preceduti da condotte autolesive. Allo stesso modo, non tutte le condotte autolesive sono correlate alla volontà di togliersi la vita. Come vedremo, tuttavia, il comportamento autolesivo aumenta la probabilità di comportamento suicidario.
Autolesionismo, Significato
L’autolesionismo è al centro di importanti dibattiti da circa un secolo. Mentre inizialmente gli esperti del settore lo avevano catalogato come “tendenza suicidaria“, nel 1938 lo psichiatra psicanalista Menninger introdusse l’idea che questo in realtà fosse esattamente l’opposto: un tentativo di autoguarigione. In quest’ottica, il bisogno di morire sarebbe dirottato su una singola parte del corpo, in modo da “preservare” il resto dell’integrità psicofisica della persona.
Da allora il concetto di autolesionismo, o self-harm, si è arricchito di diversi significati, investito da vari modelli diagnostici e terapeutici. Una svolta importante in questo senso fu data da Rosenthal e Favazza che, negli anni ’90, furono i primi a parlarne in termini di “Self-injurious behavior” (SIB): comportamento autolesionista. individuarono diverse modalità, distinguendo questi tre sottotipi principali:
- Maggiore: si verifica in presenza di identità corporea compromessa. Ciò accade in individui che presentano una disfunzione nella corteccia somatosensoriale che li porta a percepirsi come fisicamente mostruosi. Per questo motivo l’autolesionismo è messo in atto per sentirsi “più autentici”, per trasformare la loro percezione in qualcosa di visibile. Queste persone possono arrivare a deturparsi e ad asportarsi completamente alcune parti del corpo.
- Stereotipato: sono i comportamenti messi in atto da soggetti con difficoltà cognitive, tipicamente disabilità intellettiva o autismo. Sono atteggiamenti stereotipati utilizzati per gestire emozioni negative, come per esempio sbattere la testa violentemente contro un muro, mordersi sul braccio o comprimersi le orbite.
- Superficiale/moderato: è il comportamento autolesivo più comune. Conosciuto nelle sue modalità più famose di tagli, bruciature di sigaretta, graffi e urti, è praticato anche attraverso la riapertura di ferite che stanno guarendo, fratture volontarie delle ossa e così via. In poche parole, tutto ciò che provoca ferite superficiali o non particolarmente gravi del corpo.
In questo senso, i comportamenti autolesionisti si distinguono, per gravità, dall’autolesionismo e dalla violenza autoinflitta.
Self-harm e Parafilie
Poiché gli interessi sessuali sono vari ed estremamente personali, ci sono persone che sono attratte da soggetti con menomazione (devotee). Si tratta di acrotomofilia, cioè di attrazione sessuale nei confronti di persone con arti amputati (amputee). Esiste inoltre l’interesse sessuale nei confronti di chi è costretto ad utilizzare ausili medici, come la sedia a rotelle, oppure chi si eccita nel far finta di essere disabile. Finché sono fantasie vissute in modo sano, sicuro e consensuale, nulla vita di praticarle all’interno di una sessualità non normotopica, ma sicuramente non patologica.
Lo stesso non si può dire dell’apotemnofilia che, benché sia classificata come parafilia, ovvero come interesse sessuale non convenzionale, risulta essere una pratica fortemente discussa perché ritenuta poco etica. Si tratta del desiderio di amputarsi un arto sano o di apparire come se lo si avesse per sentirsi fisicamente attraenti. Sebbene abbia degli aspetti in comune con il dismorfismo corporeo, sono situazioni molto diverse tra loro.
Autolesionismo Superficiale/Moderato
L’autolesionismo superficiale/moderato può essere messo in atto con frequenza variabile, nonché con più o meno consapevolezza della presenza di un problema emozionale sottostante. Infatti, è possibile distinguere l’autolesionismo a base:
- Compulsiva, quando viene messo in atto sotto forma di compulsione nel disturbo ossessivo-compulsivo. Per capirci, in questi casi il togliersi le croste o pizzicarsi la pelle/strapparsi i capelli equivalgono al controllare di aver spento la luce, chiuso il gas o ripetuto correttamente una frase. Serve per ridurre l’ansia provocata dalla presenza di ossessioni, pensieri intrusivi e fortemente disturbanti che la persona non desidera avere.
- Impulsiva, in caso il comportamento autolesivo venga messo in atto entro breve tempo (solitamente entro 1 ora) da quando l’impulso si presenta. Possono essere episodici, ovvero sporadici, quando si associano al disturbo borderline di personalità o a difficoltà nella gestione della rabbia (vedi anche: disturbo antisociale di personalità e disturbi della condotta). Se il comportamento autolesivo è messo in atto con frequenza e ha carattere di ripetitività, significa che la persona lo ha adottato come strategia di coping per rispondere ad ogni situazione stressante, negativa ma anche positiva. In questo caso la presenza di ruminazione, ovvero di un pensiero impulsivo fortemente focalizzato su qualcosa, rende queste persone in grado di identificarsi come autolesionisti e, pertanto, di avere consapevolezza delle loro difficoltà.
Vi invito a notare che fino ad ora abbiamo parlato di comportamenti patologici ma, se ci pensate, alcune pratiche che prevedono il danneggiamento dei tessuti sono più che accettate nella società narcisistica in cui viviamo. Ne sono un esempio i pearcing, gli orecchini, i tatuaggi…
Autolesionismo, Sintomi
Negli ultimi anni si parla di autolesionismo sotto l’acronico NSSI, ovvero “Non Suicidal Self-Injiury” (autolesionismo non suicidario). Il DSM 5 discrimina infatti tra comportamenti lesivi e tendenze suicidarie. Per fare diagnosi di NSSI, la lesione non deve essere accompagnata da ideazione suicidaria. Altrimenti, si parla di disturbo da comportamento suicidario, come vedremo più nel dettaglio nel paragrafo ad esso dedicato.
L’autolesionismo non suicidario consiste, dunque, nel danneggiamento volontario e superficiale del corpo, con lividi, ematomi , dolore o sanguinamento. Vi è la consapevolezza che tali azioni provochino dei danni solo superficiali, al più moderati, ma che non siano di gravità tale da portare alla morte. Inoltre, l’agito è accompagnato da alcuni sintomi caratteristici, quali:
- Pensieri o sentimenti negativi precedenti l’azione lesiva;
- Impulso, una spinta interiore ad agire in questo modo;
- Rimuginazioni, ovvero pensieri intrusivi, ossessivi e ricorrenti riguardanti l’autolesionismo;
- Sollievo immediato o aspettativa di stato emotivo positivo subito dopo l’atto.
Le persone autolesioniste hanno in comune alcune alcune caratteristiche psicologiche. Ad esempio hanno un’elevata sensibilità al rifiuto, irritabilità, umore labile, alti livelli di impulsività e rabbia verso sé stessi. Percepiscono di avere poco controllo sugli eventi, nonché uno scarso senso di autoefficacia.
Autolesionismo in Adolescenza
L’autolesionismo non suicidario è una pratica abbastanza diffusa tra gli adolescenti, con esordio in particolare tra i 12 e i 15 anni. I motivi che spingono i giovani ad infliggersi dolore sono vari. Sicuramente non possiamo ignorare l’importanza che ha la dimensione sociale in questa fase di vita: imitare il comportamento degli altri per essere accettati dal gruppo dei pari è molto importante (vedi anche: Apprendimento sociale). Inoltre, si tratta di un periodo di importante cambiamento che spesso è vissuto in modo negativo attraverso sensazioni di malessere e di incomprensione. L’idea di rendere il dolore interiore qualcosa di più reale e tangibile è un altro fattore che spinge verso l’autolesionismo. Infine, consideriamo l’influenza che questi comportamenti producono sull’ambiente circostante: in alcuni casi si tratta di una richiesta d’aiuto, ma ciò non è sempre vero.
In generale il SNNI è considerato una modalità di coping correlata all’età. In altre parole, è una risposta aspecifica allo stress che viene messa in atto per regolare lo stato emotivo e le esperienze sociali in presenza di un qualsiasi evento stressante. La media adolescenza, ovvero quel periodo che va dai 14 ai 17 anni circa, è un periodo particolarmente critico per lo sviluppo emotivo e cognitivo. Infatti, le strutture cerebrali (corteccia orbitofrontale) deputate al ragionamento logico non sono ancora del tutto formate: ecco perché la persona si ritrova in balia delle proprie emozioni. Nel tentativo di bloccare le emozioni più dolorose, i giovani possono ricorrere all’autolesionismo. Ciò permette anche di ridurre la percezione di irrealtà ripristinando il senso di esistenza attraverso l’aumento del livello di arousal sensoriale.
Un tratto caratteristico dell’autolesionismo in adolescenza è la fatica ad esprimere in altri modi le proprie emozioni: le lesioni sono lo strumento con cui si cerca di colmare la sensazione di vuoto e di vergogna.
Soggetti più a Rischio
Quali sono gli adolescenti più a rischio di sviluppare condotte autolesive? Coloro che hanno:
- Un’identità fragile e ancora in via di formazione
- Ridotte competenze sociali e comunicative (e che quindi sperimentano ansia sociale)
- Un rapporto di inadeguatezza con il proprio aspetto fisico
- Problemi familiari e situazioni altamente conflittuali
- Depressione o disturbi dell’umore (vedi anche: bipolarismo)
- Disordini alimentari (vedi anche: Alimentazione e psicologia)
- Fanno abuso di sostanze, come alcol, droghe o farmaci
- Vissuto eventi traumatici, eventualmente correlati ad abusi sessuali (vedi anche: Sex offender e PTSD).
Non è matematico che chi detiene queste caratteristiche personologiche o ha sperimentato situazioni di vita negative sviluppi una condotta autolesiva! Non siamo, infatti, in balia degli eventi: abbiamo dalla nostra parte dei fattori che ci proteggono, come un’armatura, dal rischio di sviluppare qualsivoglia disordine psicologico, emotivo o comportamentale. Uno dei più importanti fattori di protezione è la resilienza, ovvero la capacità di adattarsi ai cambiamenti repentini della vita ritrovando ogni volta un buon equilibrio psico-fisico.
Un altro fattore di rischio per lo sviluppo di comportamenti autolesivi in adolescenza è la presenza della cosiddetta Sindrome del Brutto Anatroccolo. Questa condizione, che prende il nome dalla famosa fiaba di Andersen, si riferisce a un profondo senso di inadeguatezza e disagio verso il proprio aspetto fisico, pur non presentando difetti oggettivi. Gli adolescenti che soffrono di questa sindrome tendono ad avere una bassa autostima e a percepirsi come “diversi” e non all’altezza degli standard estetici imposti dalla società. Questo li rende più vulnerabili a sviluppare comportamenti autolesivi come tentativo di gestire le emozioni negative legate alla propria immagine corporea. È importante riconoscere e affrontare questa problematica per prevenire il ricorso all’autolesionismo come strategia di coping disfunzionale.
Bambini Autolesionisti
Come abbiamo già visto, il SNNI esordisce solitamente entri i 12-15 anni, quindi in adolescenza. Tuttavia, in alcuni casi i comportamenti autolesivi possono essere messi in atto dai bambini. Quando ciò si verifica, significa che il bambino sta vivendo una condizione di profondo malessere. Solitamente questo avviene quando il sistema familiare sta attraversando momenti di importante cambiamento, come ad esempio l’arrivo di un fratellino o di una sorellina, la perdita di un animale domestico, la separazione dei genitori, un lutto…
Alle volte il problema potrebbe risiedere nel rapporto di attaccamento con il caregiver, quando il genitore o la figura di accudimento non rispecchia i sentimenti del bambino o non risponde adeguatamente ai suoi bisogni. Non significa, tuttavia, che siate dei cattivi caregiver: una volta che vi siete accorti dei segnali d’allarme di malessere del piccolo, potete attivarvi per porvi rimedio!
I bambini autolesionisti possono provocarsi del male ad esempio graffiandosi, sbattendo la testa contro un muro, mordendosi le braccia o dandosi pugni o schiaffi. Anche nei bambini, come negli adolescenti, questo tipo di condotte sono messe in atto nel tentativo di fronteggiare emozioni dolorose. In fase di sviluppo possono non esserci strategie alternative per scaricare il senso di colpa, la frustrazione, la rabbia o l’aggressività.
Autolesionismo, Causa
La maggior parte degli autori concorda nel ritenere il NSSI un metodo di coping adottato per far fronte a emozioni e pensieri dolorosi. Tuttavia, cosa spinge una persona a scegliere questo tipo di strategia rispetto ad un’altra?
Dal punto di vista comportamentale, l’atto autolesionistico produce delle conseguenze positive per il soggetto che lo compie. Infatti, da un lato fa cessare il dolore morale provato per un periodo e dall’altro genera uno stato interno positivo. Anche le ripercussioni dell’ambiente possono essere essenziali nel mantenimento di queste dinamiche: il comportamento può rafforzare ad esempio il legame con il gruppo dei pari, attirare l’attenzione su di sé o, ancora, permettere di sottrarsi alle proprie responsabilità.
La cosa che può stupire è l’utilizzo del dolore fisico come mezzo per sentirsi meglio. Si, perché il danneggiamento di tessuto superficiale provoca il rilascio di endorfine, altrimenti dette “ormone del piacere”. Sono sostanze chimiche con effetti molto simili agli oppiacei che vengono rilasciate nel nostro cervello quando facciamo diverse attività. Ad esempio quando facciamo sport, gustiamo un cibo che ci piace, abbiamo un contatto fisico con una persona a noi cara o un animale, quando ci esponiamo alla luce del sole… Insomma, ci sono vari modi per provocare il rilascio di endorfine e uno di questi è, appunto, l’autolesionismo. Si potrebbe ipotizzare che la causa dell’autolesionismo sia uno scompenso, un malfunzionamento nel sistema degli oppioidi endogeni che spinge naturalmente la persona a mettere in atto questo tipo di comportamento a scopo di “autocompensazione” dei livelli di oppioidi.
Modello Biologico
Lo scompenso nel sistema degli oppioidi interno è ritenuto, infatti, la principale causa dell’autolesionismo, che a sua volta si ripercuote su un’altra importante sostanza chimica che solitamente è presente a livello cerebrale: la serotonina. Si tratta del neurotrasmettitore “del buon umore” implicato in numerosissime funzioni, come la regolazione del ritmo sonno-veglia, dell’appetito e della sessualità: è centrale nell’umore, nell’empatia e nella riduzione delle sensazioni di dolore fisico. Una diminuzione dei valori di serotonina induce uno stato di irritabilità che favorisce a sua volta condotte aggressive e, alle volte, autolesive.
In questo contesto, un evento stressante va ad attivare il sistema nervoso centrale della persona, che tuttavia è carente dal punto di vista degli oppioidi e della serotonina. Ciò determina una risposta autodistruttiva che inevitabilmente influenza in modo negativo le dinamiche relazionali e di intimità con altre persone. Di base vi è quindi una disregolazione emotiva.
Autolesionismo e Suicidio
Dovrebbe esservi chiaro, arrivati a questo punto dell’articolo, che i comportamenti lesivi non vengano autoinflitti con l’intenzione di provocarsi dei danni seri. La gravità superficiale delle ferite riportate non è accompagnata dall’idea di porre fine alla propria vita. Altra storia è il comportamento messo in atto a scopo suicidario.
Il disturbo da comportamento suicidario è un’etichetta diagnostica che viene assegnata nel momento in cui una persona ha messo in atto un tentativo di suicidio negli ultimi 24 mesi. Non si tratta, dunque, di soli pensieri o di progettazione di morte, ma di tentativi veri e propri.
Quando un individuo si autoinfligge delle ferite e quando, invece, tenta di suicidarsi?
I potenziali suicidi sono coloro che provano un dolore pressoché costante, quotidiano, mentre gli autolesionisti alternano momenti di benessere a sentimenti negativi. Tendenzialmente si è visto che i maschi sono più inclini al suicidio, soprattutto in adolescenza, mentre le femmine sono più soggette ad autolesionismo. In molti casi questo si associa a sintomi depressivi, disturbi di condotta o oppositivo-provocatori.
Ad ogni modo, il comportamento autolesivo aumenta la probabilità del comportamento suicidario in adolescenza. Infatti, questi giovani solitamente dimostrano di avere scarsa attrazione alla vita.
Come Guarire dall’Autolesionismo
Guarire dall’autolesionismo è possibile: occorre sviluppare nuove strategie di coping più funzionali ed efficaci per rispondere al disagio emotivo sperimentato. Inoltre, è fondamentale interrompere la relazione tra emozione/pensiero negativo e comportamento di autolesionismo. La dinamica che si instaura tra causa e conseguenza assomiglia molto a quella delle dipendenze: mettere in atto una certa azione (assumere una sostanza o, in questo caso, ferirsi) per produrre una sensazione positiva (corrispondente al rilascio di endorfine).
Non basta tuttavia sospendere gli atti autolesivi o impedire che vengano compiuti: se la persona fosse in grado di farlo, l’avrebbe già fatto. Non pensate?
In questi casi è particolarmente efficace la terapia ad approccio cognitivo-comportamentale (CBT). Centrata sul bisogno emotivo dell’individuo, favorisce il suo cambiamento attraverso la modificazione di quelli che sono i suoi schemi cognitivi e i pensieri automatici negativi. Con la CBT si lavora sull’immagine che la persona ha di sé, migliorando la conoscenza dei propri meccanismi di funzionamento e sviluppando nuove e più efficaci modalità di coping. Non esitate, dunque, a chiedere aiuto ad un professionista della salute mentale se state vivendo una situazione di disagio.