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PTSD, anche detto Disturbo Post Traumatico da Stress. La prevalenza di questo disturbo si aggira tra l’1 ed il 9% della popolazione generale. Anche se può raggiungere il 60% in sottogruppi di soggetti esposti a traumi particolarmente gravi e intensi. Stiamo parlando di una vera e propria condizione psichiatrica, con una durata minima di tre mesi entro i sei mesi dall’evento traumatico.
Nello specifico, la Prima Guerra Mondiale, la Seconda Guerra Mondiale e soprattutto la guerra del Vietnam hanno provocato un aumento dei sintomi post-traumatici tra i militari, iniziando così ad arrivare fino attenzione dell’opinione pubblica. Fino a quel momento non ci si era particolarmente preoccupati delle conseguenze di un disturbo come quello Post Traumatico da Stress, i militari non venivano sottoposti a cure specifiche e venivano abbandonati alla loro condizione.
Grazie ad alcuni psichiatri militari americani, come Bion e Foulkes, si iniziarono a sviluppare trattamenti specifici, capaci di riconoscere le conseguenze del trauma. Tutto questo permise di introdurre il PTSD nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Si ottenne così il riconoscimento ed il rimborso delle relative terapie psichiatriche dalle assicurazioni sanitarie private e dal sistema della Veteran Administration per i militari.
Riconosciuta l’importanza del trauma psicologico (e non solo), si iniziò anche a notare che i sintomi tipici del Disturbo Post Traumatico da Stress e delle sindromi traumatiche potevano essere presenti anche in soggetti che non avevano praticato il servizio militare. Dalle vittime dirette ai testimoni diretti e indiretti dell’evento, i pazienti con PTSD possono avere un livello di coinvolgimento molto diverso. Vediamo nello specifico cos’è questo disturbo, quali sono i sintomi, il tipo di terapia e le differenze rispetto al disturbo da adattamento.
La gente ha cicatrici in tanti posti impensabili. Sono mappe segrete delle storie personali, diagrammi di tutte le vecchie ferite. La maggior parte delle nostre ferite guarisce, lasciando solo cicatrici, ma alcune non guariscono.
PTSD, cos’è?
Il PTSD, anche detto Disturbo Post Traumatico da Stress, entra a far parte anche dell’ultima edizione del DSM-5 all’interno del capitolo dedicato ai disturbi correlati a trauma e stress. Come abbiamo già accennato, la storia di questo disturbo è particolarmente connessa a quella dei più grandi conflitti mondiali. Non a caso un tempo veniva definito come nevrosi da guerra, proprio perché caratterizzava quei militari che avevano vissuto sul campo di battaglia un evento traumatico e continuavano a sperimentarlo anche tornati a casa. Alla base del PTSD ritroviamo proprio l’interazione individuo-ambiente, in cui ha origine il trauma. Questo provoca un allarme cronico a livello cerebrale che influenza ogni aspetto della vita del paziente.
La base biologica è connessa proprio al funzionamento dell’ippocampo, una parte del cervello responsabile del condizionamento al contesto. Questo produce difficoltà nell’estensione della paura oltre a difficoltà a livello mnemonico, connesse anche a problematiche nella formazione di nuovi ricordi. Ogni aspetto della vita dell’individuo viene influenzato dalla natura del trauma. Anche in un percorso arduo come quello di affido o adozione, il figlio adottivo può sviluppare PTSD in risposta al vissuto di abbandono della famiglia d’origine.
L’effetto sulla memoria è riconducibile anche al funzionamento dell’amigdala, fortemente attivata proprio perché custodisce il ricordo del trauma e continua a produrre flashback ed ecmesie, in cui il vissuto dell’evento traumatico si ripresenta involontariamente. In generale il PTSD è a tutti gli effetti invalidante, provocando sintomi frequenti di ansia, depressione oltre ad una continua ripresentazione del trauma.
PTSD, Sintomi
Il PTSD, secondo l’ultima edizione del DSM, come un disturbo psichiatrico caratterizzato dallo sviluppo di una serie di sintomi ansioso-depressivi in seguito di un evento traumatico. La caratteristica principale è quella di un comportamento irritabile, aggressivo o autodistruttivo in seguito a un trauma, per almeno 3 mesi entro 6 mesi dall’esposizione. Il criterio A definisce il trauma come un’esperienza, diretta o indiretta, improvvisa e imprevista, capace di provocare turbamento e dotata di una forte carica emotiva. Un esempio? L’aborto spontaneo. Il vissuto del paziente è di disintegrazione, accompagnato anche da sintomi di dissociazione, tra la vita prima del trauma e quella successiva.
Questo rende impossibile anche dare un senso all’avvenimento rispetto alla narrazione di sé, l’intensità dell’evento è tale da renderlo quasi incomprensibile. Per questo è importante differenziare il trauma tra T maiuscola, connesso a eventi che mettono a rischio l’incolumità propria o altrui (vedi anche: Lutto), e t minuscola, riferito a eventi traumatici che non interferiscono con l’incolumità, come i traumi di attaccamento.
Il criterio B del DSM ci parla della presenza di sintomi intrusivi correlati all’evento traumatico, con ricordi del trauma molto ricorrenti e involontari. Il paziente vive una vera e propria dissociazione che lo porta a perdere il contatto con la realtà. Questo lo fa tornare al momento esatto dell’evento traumatico e provocando una ri-sperimentazione anche emotiva, come fosse ancora lì. In più, mostra un evitamento persistente di tutti gli stimoli connessi al trauma oltre ad una alterazione di emozioni, umore e pensieri connessi all’evento traumatico. Il comportamento del paziente è spesso accompagnato da esplosioni di rabbia. Questo proprio perché l’immagine del trauma tende a innestarsi come minaccia interna che continua a ricomparire. Lo stato di allerta è costante e influenza ogni aspetto della vita quotidiana, con stati di ipervigilanza, problemi di attenzione e di concentrazione oltre che disturbi del sonno (vedi anche insonnia).
Psicologia e PTSD
Data l’importanza nel Disturbo Post Traumatico dello Stress dell’ambiente, uno dei predittori principali è proprio quello delle avversità in infanzia oltre a diversi eventi di natura stressante, come traumi di violenza infantile. Questo provoca una iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, che tende a permanere per tutta la vita e questo influisce sulla predisposizione a sviluppare PTSD. Non a caso, elevato è anche il livello di comorbilità con diagnosi di depressione e ansia, legate anche alla gestione delle emozioni o a un vissuto traumatico di gravidanza e maternità. La probabilità di cronicizzare sintomi di questo tipo, in assenza di una terapia adeguata, aumenta purtroppo anche la probabilità di suicidio per questi pazienti. Inoltre, il soggetto ha difficoltà a sviluppare una adeguata capacità di resilienza oltre che efficaci strategie di coping.
La probabilità di sviluppare un disturbo di questo tipo non dipende dalla personalità o dal temperamento: non a caso le due professioni più a rischio per questa patologia sono i veterani di guerra e i medici. Si tratta di persone che mettono a rischio la propria incolumità. Inoltre, devono dimostrare un’elevata resilienza agli eventi traumatici con cui vengono a contatto. Non sempre è possibile farlo, il trauma a livello psichico costituisce una vera e propria ferita improvvisa, rapida e particolarmente intensa. Il vissuto determinato dal trauma è quello di disintegrazione, delle capacità sia integrative che difensive del nostro sistema psichico.
La mente vive un’esperienza di morte, come se si rompesse in mille pezzi. Nel caso dell’abuso infantile, per esempio, il soggetto non riesce a dare significato a un’esperienza di questo tipo rispetto alla narrazione di sé. La reazione del soggetto nel momento in cui vive un’esperienza traumatica di questo tipo, come quella di sex crime, può essere di massima inibizione, il cosiddetto freezing, che tutela la propria sopravvivenza oppure di massima agitazione.
Vedi anche: Sex Offender
PTSD, Test
Partiamo dal presupposto che, prendendo anche in considerazione le linee guida dell’ultima edizione del Manuale Diagnostico, utilizzare soltanto un test per fare diagnosi di PTSD non è possibile. È necessario infatti iniziare un percorso terapeutico per riuscire a comprendere se i criteri e i sintomi del Disturbo Post Traumatico corrispondono a quelli riportati dal paziente. Uno dei test più usati per aiutare a diagnosticare il disturbo è la PTSD Checklist for DSM-5, anche detta PCL-5. Si tratta di un test auto somministrato composto da 20 item, che funge da strumento utile per ottenere una diagnosi provvisoria. In realtà, l’obiettivo è quello di inserire il punteggio ottenuto nella PCL-5 in un’intervista clinica strutturata, come la Clinician-Administered PTSD Scale (CAPS-5).
Importante per la fase di diagnosi e anche di terapia è conoscere le differenze tra le diverse fasi del trauma. La prima fase è quella più acuta, in cui l’intero sistema psichico viene invaso con una forte sensazione di impotenza capace di interferire sul senso di sé e sul senso del tempo. La fase successiva apre due diverse possibilità, la prima legata alla reintegrazione verso la normalità mentre la seconda è connessa alla psicopatologia. Quando il danno è troppo intenso da elaborare, il tentativo di integrare è quindi fallimentare.
Allora entra in gioco la terapia, che serve al paziente per integrare e riuscire a maneggiare il trauma, trattato come materiale incandescente. Infine, la terza fase è quella di cronicizzazione, che può presentarsi anche dopo mesi dal trauma. L’evento traumatico diviene eterno presente per il paziente, con un perenne stato di angoscia, e può sorgere anche il PTSD.
Cura e PTSD
L’immagine del trauma, come abbiamo già accennato, si innesta come vera e propria minaccia interna, che non svanisce il tempo ma continua a ripresentarsi. Importante è sapere che anche la somatizzazione si connette al trauma, con sintomi fisici senza una reale base organica. Uno dei casi più comuni è quello di abuso infantile, in cui il bambino tende a dare una forma di trauma come espressione della propria sofferenza localizzata in alcune zone del corpo. Anche per questo motivo è elevata la comorbilità, con disturbi come depressione e ansia ma anche il disturbo borderline di personalità. Dissociazione e autodistruzione fanno parte anche di questo disturbo, una parte di ricerca ipotizza che il disturbo di personalità possa essere risposta ad un ambiente invalidante.
Detto questo, uno dei trattamenti più utilizzati in caso di PTSD è la Mindfulness, volta a insegnare al paziente a vivere nel presente in modo non giudicante attraverso esercizi di meditazione. Anche la terapia cognitivo-comportamentale può servire al paziente per sviluppare delle strategie utili per combattere i vissuti intrusivi connessi all’esperienza traumatica. La terapia sensomotoria serve, invece, ad identificare la finestra di tolleranza del paziente, lavorando sulla sua capacità di integrazione. Pratiche come il trauma sensitive yoga sono utili a produrre un effetto rilassante. Infine, l’EMDR si rivela pratica utile per traumi accaduti da poco quindi non sempre efficace in caso di PTSD.
Disturbo da Adattamento
Differenziare il Disturbo Post Traumatico da Stress da altre tipologie di disturbi presenti nel DSM è molto importante. Nel caso del disturbo dell’adattamento, facciamo in realtà riferimento a un insieme di sindromi eterogenee e di risposte allo stress che si verificano dopo un evento stressante, non per forza traumatico. Per esempio, in risposta al Coronavirus, potrebbe svilupparsi una disturbo dell’adattamento con sintomi e conseguenze meno intense del PTSD. Il paziente riporta vissuti di forte angoscia oltre che sintomi emotivi e comportamentali, connessi a un fattore stressante identificabile. Inoltre, i sintomi connessi al disturbo da adattamento devono presentarsi entro 3 mesi dall’esposizione a un fattore di stress.